La Venere di Morgantina e la sua intrigante storia passata e recente

Esposta dal 2011 al museo archeologico di Aidone

La statua è un vero e proprio capolavoro dell’arte greca classica, un reperto archeologico di altissimo pregio artistico ed inestimabile valore economico. È l’immagine, di dimensioni superiori al vero, di una figura femminile in movimento, in una posa austera e possente, con le vesti aderenti al corpo e mosse in una fitta plissettatura. La statua è un raro originale della scultura siceliota (espressione, cioè, della cultura dei Greci di Sicilia), cavato da un immenso blocco di calcare ibleo per mano di un abile artista ignoto della fine del V secolo a. C. (420/400 a.C.). Gli archeologi la definiscono un acrolito, cioè un tipo particolare di scultura realizzata con l’impiego di diversi materiali: nello specifico, al corpo massiccio in tenera pietra calcarea siciliana l’anonimo scultore unì le estremità nude (testa ed arti) in fine marmo bianco dell’isola greca di Paros. Non si ha alcuna certezza del luogo in cui venne scolpita, se sia giunto a Morgantina un masso informe o una statua bell’e pronta, magari creata nella vicina Siracusa, “capitale” della Sicilia greca, cui per secoli Morgantina fu legata. Certo è opera di uno scultore di alto livello, come ce ne saranno stati tanti nella grande Siracusa tra V e III secolo a. C., alcuni provenienti direttamente dalla Grecia ed in possesso di grande esperienza. La sua storia più recente, così come quella degli acroliti arcaici e degli argenti ellenistici, è molto travagliata e rimane ancora oggi densa di ombre e misteri. La ricostruzione del lungo viaggio che portò la statua oltreoceano, dalla Sicilia all’America, fu sommariamente tracciata per la prima volta nel corso di un procedimento penale avviato nell’ 88 dal Tribunale di Enna, all’epoca guidato dal magistrato Silvio Raffiotta. Le indagini presero le mosse da una vicenda inaspettata, che stranamente coincise con l’ufficializzazione dell’acquisto della Venere da parte del museo Getty di Malibù. Nel giugno dell’ 88 Thomas Hoving, ex direttore del museo Metropolitan di New York, dichiarò pubblicamente sulle pagine della rivista d’arte Connoisseur, da lui stesso diretta, che la colossale figura di divinità in fase di acquisizione da parte del Getty proveniva da scavo abusivo e recente a Morgantina, sito a lui ben noto per avervi scavato nel 1957, da giovane archeologo al seguito della missione archeologica dell’Università di Princeton. Da queste clamorose dichiarazioni di Hoving scaturì l’inchiesta per il recupero dei capolavori sottratti a Morgantina. Si individuò un giro di tombaroli operanti nel sito archeologico ed il pentimento di uno degli arrestati portò a conoscenza dei ripetuti saccheggi subìti dall’antica città tra gli anni ‘70 e ‘80. Le indagini consentirono di confermare quanto sostenuto da Hoving, cioè che diversi capolavori di inestimabile valore erano stati trafugati dall’area archeologica per finire nel mercato internazionale di antichità rubate. Le indagini portarono subito ad importanti risultati, con riferimento ai reperti trafugati da Morgantina, si scoprì che i musei coinvolti erano due: il Metropolitan Museum of Art di New York, che tra il 1981 ed il 1984 aveva acquisito il gruppo degli argenti, ed il John Paul Getty Museum di Malibù, in California, che contestualmente all’avvio delle indagini del Tribunale di Enna formalizzava l’acquisto della “Venere” (luglio 1998). Gli inquirenti scoprirono, inoltre, che uno stesso nome accomunava la storia più recente della Venere e degli acroliti: era quello di un noto antiquario nonché trafficante di opere d’arte rubate, nelle sue mani erano arrivate la grande statua e le dee arcaiche di Morgantina, e dalle sue mani le tre sculture erano state vendute a musei e collezionisti americani. Nonostante gli indizi raccolti, l’America si mostrava riluttante a restituire il maltolto Dopo anni di titubanze il nostro Ministero decise per una perizia petrografica il cui esito diede un ulteriore schiacciante indizio a favore della provenienza siciliana della statua: non solo la pietra risultò essere un calcare tipico della zona degli Iblei ma si accertò che con lo stesso materiale era stata scolpita una seconda statua femminile di medie dimensioni proveniente da scavi ufficiali Morgantina.  Nel 2005 il Tribunale di Roma avviò un processo penale contro tutti quei musei stranieri che possedevano reperti di presunta provenienza italiana, individuando i nomi dei grossi ricettatori che lavoravano come tramite tra i tombaroli italiani e le istituzioni museali. Con quel processo veniva inferto, a livello internazionale, un durissimo colpo al commercio illegale di antichità rubate ed ai tanti musei che, affidandosi a quel genere di commercio, avevano formato le loro collezioni di antichità greco romane. Nell’indagine furono coinvolti, tra tutti, anche i responsabili degli incauti acquisti del Getty, che di lì a poco si sarebbero convinti, strategicamente prima che il processo romano si concludesse, a venire a patti con l’Italia, promettendo la restituzione di parecchi reperti. Tra questi, la Venere di Morgantina che ormai portava sul corpo, indelebili, le cicatrici del suo saccheggio: per essere trasportata agevolmente, considerate le sue dimensioni, la statua era stata rotta in tre grandi parti, per essere poi sapientemente ricomposta dai restauratori del museo californiano.
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