Una volta, nelle placide notti stellate ennesi il suono del marranzano (“nangalarruni”) accompagnava i canti d’amore o di “sdegno”, dedicati a quelle donne che, a seconda dalle circostanze, erano destinatarie di amore oppure disprezzo. Le canzoni popolari, di tipo vernacolare, erano spesso composte da otto endecasillabi con una rima variabile, o baciata o alternata; altre volte, il primo verso si accordava con il quarto. La linea melodica era dolcemente malinconica, forse antico retaggio della musica patetica di origine araba. Un canto popolare esprimeva in questi termini l’intima sofferenza dell'innamorato che non trovava la sua cara:
“Quannu passu di ccà o nun c'è idda
Oscura mi pari la vanedda”;
oppure:
“Passu e spassu di 'sta strata
Passu spassu e m'allammicu,
‘Ntra me stissu sempri dicu:
Lu miu amuri nun ci sta !”
Uno dei canti più belli idealizzava la donna, capace di suscitare una incantata, struggente trepidazione:
“Quannu veni la notti e a lettu iti
La luna fa la guardia, e vui durmiti,
Quannu sona la missa e vui ci iti,
La genti fannu largu e vui trasiti;
E quannu la manu a la fonti stinniti
Di rosi e sciuri vi la carricati;
Quannu speddi la missa e vui nisciti
La genti senza cori li lassati”.
Un altro canto innalzava fino al cielo la donna amata, la cui bellezza era tale da provocare struggimento negli stessi angeli:
“Quannu nascisti tu, s'aprì lu celu
Bedda nascisti ccu la parma a mmànu
Li tò biddizzi su ghiunti a lu celu
Ca l'àncili di tia si spavintàrru
Quanti biddizzi ha sutta ssu velu
Ca cu ti vitti sinni nnammuràu”.
Oggetto della poesia dialettale ennese, non erano la primavera, il monte, la pianura, il lago, il gregge al pascolo, la capretta, il bovicello, l'usignolo o la pallida distesa della neve ma la donna reale, bella, colorita, ammiccante:
“Quantu si bedda, quantu si pulita,
Sin'a lu caminari si adurnata,
Quannu ti minti ssu velu di sita,
Di tanti giuviniddi si adurata.
Bedda, ca mi nascisti a li jardina,
Ondi li parti di la tramuntana:
Quanta si bedda, dilicata e ffina,
Cu ti talìa 'mparadisu acchiana !"
A volte, la perdita della propria donna provocava sconforto e rassegnazione tanto da indurre l’uomo a cantare tristemente:
“Vurria essiri àddu di innaru
Quantu cantassi 'na sira a lu scuru,
E irrimminni 'ncapu un campanaru,
A cianciri la pilaneta, sulu, sulu.
Li genti ca passassiru, dirrìanu:
Cchi ha ssu àddu ca fà ssu rancuru ?
E iju cci rispunnissi, a mmanu a mmanu:
Persi la puddastredda, e sugnu sulu !"
Talora, il canto popolare assumeva carattere carnascialesco, rievocativo di tempi remotissimi in cui il flauto del dio Pan accompagnava, da queste parti, i riti dionisiaci:
“La musica sona e nuatri abballamu,
Signura, 'nti stu munnu chi gòdimu ?
Nnascìmmu sunannu e sunannu murìmu
Iu l’àiu lu strummintu: l'accurdamu?
Si chiama flautu e nnò viulinu
Ppì sunarilu ccì vunu quattru manu
Suddu nuàtri dui ni iuncìmu
D'armunìa, ‘mparadisu nn'acchianàmu”.
Nelle canzoni di sdegno, invece, l’innamorato, scorgendo la fanciulla desiderata vagheggiare con altri uomini, esprimeva con rude efficacia il mutamento dell’amore in pungente e stizzita delusione:
“A prima ti vidia sira e matina
Ora mancu ‘na vota la simana,
Ora c'addivintasti brivatura
Ch'ogni viddanu si ci strica e lava....”.
In tali componimenti la donna è tutt’altro che idealizzata, è reale, umana, capace di ferire quindi passibile di disprezzo:
“Facci gialla avvilinata
Di lu cori mi cadisti
Fazzu cuntu ca muristi
Ca ì a ttì un ti voglin cchiù
Chi daveru lu cridevi
Ca ì a ttì maia a pigliari?
Levatillu ssu pinziari
Ca ì a ttì un ti vogliu cchiù.
Malidittu chiddu juarnu
Ca di tia mi nnammuravu
La saluti ccì appizzavu
Nella megliu gioventù”.
I canti popolari fiorirono nel solco dei campi e nelle viscere delle zolfare ad opera di poeti senza nome. In essi si specchiava l’anima del popolo ennese e da essi si evince quanto importante dovette essere la figura femminile, che, proprio a Enna, raggiunse il culmine dell'idealizzazione nell’antichissimo culto agrario della Dea Madre e nell’elaborazione del Ratto di Proserpina. Fin dall’epoca preistorica e per tutto il periodo classico, l’elemento femminile venne enfatizzato al punto da costituire il fulcro della creazione umana oltre che motivo stesso dell’esistenza. La mitologia classica ci racconta di una Dea Madre, Cerere / Demetra, simbolo della fecondità muliebre, che si sdoppia nella figura della figlia, Kore / Proserpina, capace, dopo aver maledetto la terra, di imporre a tutti gli uomini e a tutte le divinità dell’Olimpo la legge della natura: dell’avvicendarsi della vita e della morte, dell’alternarsi delle stagioni, della semina e della raccolta. Non è un caso se la sacra rocca ennese, dedicata alla “doppia dea” fosse accudita da una casta sacerdotale prevalentemente femminile, come testimonia una lapide del II - III sec. d.C., esposta nel museo archeologico di palazzo Varisano, in cui si fa espresso riferimento alla “sacerdotessa pubblica di Cerere” di nome “Tettia”, la quale può essere considerata la donna più antica, di cui sia attestata “per tabulas” l’esistenza a Enna. Da tempo immemorabile il tema della bellezza ha impegnato filosofi, artisti, scrittori, poeti e intellettuali. Richiesto Aristotele del perché tutti fossero così innamorati della bellezza: “Cotesta - rispondeva - è dimanda da ciechi”. Socrate la descriveva come “una tirannia di breve durata” e Teofrasto la definiva “un tacito inganno”. La gran parte degli antichi filosofi, pur dibattendo sull’ideale di bellezza, disprezzavano e deridevano le donne d'allora che si adoperavano per mettere in mostra ed esaltare la propria avvenenza. Parrebbe, addirittura, che le donne di quel tempo si spingessero in artifizi se non di più almeno quanto le donne moderne. Così Giovenale, nelle sue Satire, scherniva le donne “dal viso impiastricciato e verniciato”. Le donne romane facevano uso stravagante di creta e di pittura, come possiamo intuire da quel che ne dice Marziale: Fabulla aveva paura della pioggia, a causa della creta che le copriva il viso; Sabella, del sole, a causa della crema a base di biacca (carbonato basico di piombo) di cui il suo viso era tinto; la famosa Poppea, prima amante, poi moglie di Nerone, faceva uso d'una pittura untuosa, che le induriva il viso e cambiava interamente le sue naturali fattezze. In verità, appare evidente come la bellezza, non essendo un principio assoluto, sfugga ad una rigida definizione sicchè il Bello ha assunto sembianze artistiche e pensieri estetici differenti a seconda del luogo e del periodo storico, lasciando aperto un dibattito mai sopito. Molti dei viaggiatori del “Grand Tour” che, tra il ‘700 e gli inizi del ‘900, si avventurarono nella rocca ennese affascinati dal mito di Persefone, di rado si soffermarono sulla descrizione del genere femminile, limitandosi a riferire che le donne si distinguevano più per la prestante corpulenza tipica della massaia (fig. n.1), che per la finezza dei lineamenti, quasi parafrasando inconsapevolmente l’ideale aristotelico, in virtù del quale una cosa è bella quando realizza pienamente il suo scopo, che coincide con la sua forma. Nel 1889, l'art editor americano Augusto Floriano Jacassy, sul mensile newyorkese Scribern’s Magazine (fig. n.2) di cui era corrispondente, più diffusamente scriveva: “La singolare mescolanza di tanti popoli diversi ha prodotto una razza del tutto a parte - piccola e robusta senza tratti fisici marcati - non tipi generali ma molti tipi individuali. Quello che si nota in loro è anzitutto la predominanza di lineamenti piuttosto aspri e fortemente accentuati, grandi occhi neri fiammeggianti, con lo sguardo fisso animalesco, risplendente nei toni del bruno caldo dei loro volti energici. Ma dopotutto, questa è solo un'impressione generale, e mentre scrivo mi ritornano alla memoria tipi molto diversi: volti umani, piuttosto greci, con lineamenti lunghi e delicati ma anche teste con capelli biondi e occhi azzurri. Tutte queste persone sono vestite di nero o blu scuro, le donne indossano scialli sulla testa che coprono metà del viso, gli uomini indossano sandali con gambali di cotone Questi dettagli sono evidentemente un retaggio della dominazione araba e spagnola, che hanno lasciato tracce più profonde di qualsiasi altra razza conquistatrice. Il geloso isolamento delle donne, l'assenza di relazioni sociali, la disposizione delle loro case, che le fanno sembrare prigioni, sono altrettante caratteristiche nate dalla stessa origine”. Le poche possibilità che le donne avevano di scambiare qualche occhiata furtiva si realizzavano all’interno delle numerose chiese, laddove le ragazze, parlavano con gli occhi ("pretty italian expression,"speak with their eyes"", scriveva Jacassy), flirtando con i loro spasimanti. Nel corso delle processioni, “il corteo delle fanciulle incoronate di fiori, e graziosamente drappeggiate di grandi veli bianchi, passava come se un fregio antico si srotolasse davanti a noi” (fig. n.3). Le popolane ennesi erano sempre affaccendate con la casa o a lavare la biancheria nei corsi d’acqua: “Le incontriamo con grandi fagotti in testa. Sono tutte dritte, flessuose e nude di piede; sono cenciose e, quel che è peggio, si viene avvertiti del loro avvicinamento prima che appaiano. Tuttavia molte di esse sono belle; hanno tutte l'incedere facile e aggraziato delle dee, e sembrano fatte apposta per le modelle dei pittori” (figg. n.4,5, 6). Di cotanta bellezza rimangono oggi rare immagini fotografiche di fine '800, raffiguranti fanciulle (figg. n.7,8,9,10,11,12) con il capo coperto dal classico fazzoletto bianco, simile al suffibulo indossato un paio di millenni prima dalle sacerdotesse della Cerere ennese. Tuttavia, fu proprio la maestria del pittore ennese Paolo Vetri (1855 - 1937), tra i più grandi ottocentisti italiani, a ritrarre e rendere immortale la bellezza di una delle fanciulle che animava quel fiero popolo montanaro (fig. n.13): oggi intorno alla straordinaria intensità di quello sguardo ipnotico sembra roteare la girandola di un tempo senza fine.