Rovistare nel cassetto della storia, della memoria per raccontare e per vivere con consapevolezza il territorio. Questo lo scopo della rubrica che aiuterà a comprendere e conoscere il passato e soprattutto ad alimentare l’interesse non solo degli appassionati ma dei tanti lettori alla ricerca di curiosità, di notizie inedite o poco conosciute ai più.

Gaetano Cantaro
Di professione Avvocato, è collezionista di arte antica ed appassionato di storia. Ha partecipato come consulente alla realizzazione di diversi eventi culturali, mettendo a disposizione le opere del proprio archivio storico, con il fine di promuovere la conoscenza e la tutela del territorio.


La civiltà del vino nella Sicilia centrale e i palmenti rupestri di Cozzo Matrice

Non sappiamo chi ebbe per primo l’idea di spremere i chicchi d’uva per ricavarne il succo, sappiamo però che la bevanda fermentata divenne subito un catalizzatore carico di significati sociali

Nell’area dei Monti Erei sono censiti oltre un centinaio di siti archeologici, spesso misconosciuti, che coprono un lungo periodo storico compreso tra il Paleolitico superiore e l’Età del Ferro, cioè tra 15.000 anni fa e l’VIII secolo a.C.. Qui la popolazione umana si sviluppò lentamente fino al Neolitico, per aumentare in via esponenziale a partire dall'Età del Rame fino all’Età del Bronzo antico. Dalla fine del II millennio a.C., durante il Bronzo finale, si manifestò una netta evoluzione economica, culturale e sociale che portò alla nascita di diverse comunità indigene le quali, a partire dall’VIII sec. a.C., vennero in contatto con le prime colonie greche fondate lungo le coste siciliane. Sulle alture circostanti il Lago di Pergusa (foto 1) sorsero piccoli villaggi indigeni forse ancor prima che il lago nascesse per sprofondamento della crosta terrestre: fu qui che la fantasia di quegli sparuti pionieri elaborò il mito del Ratto di Proserpina, un mito romantico ed allo stesso tempo tragico fiorito migliaia di anni fa ma ancora vivo nelle bocche dei vivi. Diodoro Siculo riferiva che l'area di Pergusa, circa 3000 anni fa, fu colonizzata prima dai Sicani, poi dai Siculi, i quali attribuirono natura divina alla bellezza di questi luoghi. Oggi il lago sembra giunto alla fine della sua esistenza, tuttavia, i suoi fondali nascondono indizi importanti che consentono di ricostruire il paleoambiente degli albori della Sicilia. Dal campionamento dei sedimenti del lago, attraverso carotaggio, e dallo studio delle sequenze dei pollini fossili, è emersa la presenza, già a partire da 3700 anni fa, della vite. L’impatto umano sulla vegetazione cominciò ad essere ancor più evidente circa 2800 anni fa quando cereali, viti, leguminose ed ulivi raggiunsero una presenza di rilievo. Questi studi scientifici smentirebbero la tradizionale teoria secondo la quale la coltivazione della vite a scopi alimentari coinciderebbe con il contatto con il mondo greco in età pre- o protocoloniale. Il risultato delle ricerche sembrerebbe invece confermare che, tra il Neolitico e la prima età del Bronzo, vi sia stata un’attività di pre-domesticazione, intesa come protezione e raccolta delle piante spontanee più produttive di una vite selvatica endemica (Vitis Silvestris). La circostanza appare confermata dai suggestivi versi dell'Odissea in cui si afferma che i Ciclopi vinificassero da viti selvatiche (Od. IX, 108-111), ciò a riprova di uno stadio embrionale della vitivinicoltura in Sicilia, precedente alla colonizzazione storica dell’VIII sec. a.C.. L’esordio letterario della storia vitivinicola dell’occidente è racchiusa nel IX Canto dell’Odissea dove i vini “forti, scuri e dolci” offerti da Ulisse a Polifemo, provenienti dal mediterraneo orientale si contrappongono a quelli dell’isola dei Ciclopi, “… che nulla piantano con le mani, né arano. Tutto cresce per loro senza semina né aratura: e grano, e orzo, e viti producono vino dai grossi grappoli, e la pioggia di Zeus li nutre”. Tra il Bronzo Medio e Tardo, grazie al contatto con l’area di paradomesticazione della vite gravitante sul mondo egeo, si diffuse la produzione organizzata del vino estratto dalla vite domestica (Vitis Vinifera). In quel periodo, infatti, gruppi di naviganti micenei e fenici raggiunsero le coste della Sicilia scambiando vino di qualità superiore e introducendo le conoscenze necessarie a produrne da viti locali adeguatamente trattate ovvero da vitigni alloctoni. La pressione selettiva esercitata dall'uomo, con la scelta delle piante da moltiplicare, avrebbe consentito gradualmente di migliorare i caratteri utili alla produttività (ermafroditismo, dimensione della bacca e dei grappoli) e alla qualità del prodotto (accumulo zuccherino, resistenza alla siccità). Ben presto i vini siciliani rivaleggiarono con quelli greci guadagnandosi grande fama. Nell’Età del Ferro, la civiltà del vino si diffuse ampiamente come testimoniato dal rinvenimento di forme vascolari e strumenti di provenienza o ispirazione egeo-orientale. Particolare rilievo assume l’askos (vaso da vino) indigeno di Centuripe (foto 2, 3), rinvenuto, intorno al 1824, da un agricoltore che lo adoperò a lungo per trasportare acqua. Dopo una serie di vicissitudini (fu acquistato a Palermo e illustrato da Giuseppe Crispi nel 1830 nel giornale di scienze, lettere ed arti per la Sicilia), il vaso scomparve per riapparire misteriosamente in Germania, nel Museo di Karlsruhe. Databile intorno alla fine del VI o all'inizio del V secolo a.C., il reperto reca incisa una lunga iscrizione in lingua sicula, di incerta interpretazione. Una delle traduzioni proposte è la seguente: “Ora offro il mio vaso. Io sono tuo. Questo è un dono, Nanos. Poiché sono un dono tua è la proprietà. Non pongano i tuoi eredi vino dentro me”. Sarebbe un discorso fatto dallo stesso vaso, il quale direbbe di essere un dono per un certo Nanus (nome molto comune fra le genti sicule). Se così fosse, la prima volta che nel mondo si scrisse la parola vino la si scrisse proprio a Centuripe. Altra testimonianza di rilievo è l’anfora da vino (foto 4) rinvenuta nella famosa tomba n.31 della necropoli di Montagna di Marzo (EN), custodita nel Museo archeologico di Agrigento, recante un’iscrizione sicula su due righe (anch'essa di dubbia interpretazione), di cui è stata proposta la suggestiva traduzione: “una coppa può ottenere chi giunge ospite (nella casa) di Eurumaco: può bere a sazietá fino a traballare (da ubriacarsi)” - “una piccola parte del desiderio di bere una bevanda distillata che crea illusioni e che tonifica, la maggioranza per calmare la sete con una libagione molto forte”. Di particolare interesse è l’oinochoe a figure rosse del 480 a.C. (foto 5, dal Museo archeologico di Caltanissetta), rinvenuta nella necropoli di Sabucina (CL), raffigurante un uomo barbuto impegnato nel kottabos, un antichissimo gioco inventato dai siculi e diffuso in tutto il mondo greco, consistente nel colpire un bersaglio con il residuo del vino rimasto nella coppa. A dispetto della grande popolarità del kottabos in Sicilia, sono pochi i vasi rinvenuti che raffigurano questo soggetto. Non sappiamo chi ebbe per primo l’idea di spremere i chicchi d’uva per ricavarne il succo, sappiamo però che la bevanda fermentata divenne subito un catalizzatore carico di significati sociali. Il vino divenne strumento attraverso il quale le comunità e i singoli individui si aggregavano per celebrare ricorrenze o per raggiungere stati di alterazione frequentemente collegati ad aspetti cultuali. Così come Demetra, la dea madre, aveva donato agli uomini i cereali e la possibilità di nutrirsi non più esclusivamente di frutti ed erbe selvatiche, allo stesso modo Dioniso aveva donato la vite e insegnato a trasformarla in vino, "sangue della terra" (Plinio Naturalis Historia XIV, 7, 58). Il vino, grazie alle sue potenti proprietà psicotrope e inebrianti, entrò a pieno titolo nella sfera religiosa e culturale, acquistando un ruolo fondamentale in ogni forma di attività cerimoniale che prevedesse pasti collettivi. La riprova della diffusione della sacra bevanda nell'ennese, si rinviene, tra l’altro, nella Litra in bronzo (foto 6) coniata tra il 220 ed il 150 a.c. nella città di Enna, raffigurante un grappolo d’uva entro corona d’alloro, con al retro la figura di una divinità e la legenda “Hennaion”. Tale motivo dionisiaco, comune ad altre città coeve siceliote, conferma la diffusione e l’importanza del vino in questo territorio. Nel suggestivo villaggio indigeno (foto 7, 8, 9) di Cozzo Matrice (EN), intimamente correlato al mito del Ratto di Proserpina, v’è un’altissima concentrazione di palmenti rupestri (dal latino “pavimentum”: pavimento, selciato) che ci fanno comprendere cosa gli antichi abitanti facessero di tutto quel polline di vite trovato nei fondali del Pergusa: una florida attività vitivinicola. Non è escluso che il palmento rupestre ubicato sulla rocca est (foto 10, 11), che fronteggia l’Etna in una veduta mozzafiato, possa aver subito nel tempo metamorfosi funzionali, tali da trasformare un’ara sacrificale preistorica in palmento (è possibile vederne ben sei nella stessa zona. Foto 12, 13, 14). Uno di questi palmenti rupestri, ricavato da un grosso monolite (foto 15, 16) sovrasta la necropoli del sito, quasi a voler collegare idealmente il rito della pigiatura dell’uva con il mondo dei defunti. L'uva veniva riposta in una vasca scavata nella viva roccia, con i lati alti circa sessanta centimetri, e veniva pigiata con i piedi, poco alla volta, come narrava il sommo poeta Virgilio: “vieni con me, tingi l'ignude gambe col novello mosto" (Le Georgiche libr. II V. 7-8). La vasca di pigiatura era affiancata da altra vasca nella quale si riversava il mosto che vi defluiva tramite un foro. La faticosa cura della vite, la raccolta dell’uva (foto 17, dal Museo archeologico di Atene), la pigiatura a piedi nudi, la fermentazione per 48 ore, il prelievo del mosto con il decalitro, il lavaggio della botte di castagno con acqua bollente e foglie di alloro, la “nsurfarata”, ossia la disinfestazione con fumo solforoso, è un composito rituale che si perpetua da centinaia di anni e che ho avuto la fortuna di praticare durante la mia fanciullezza proprio in questi luoghi incantati, nelle pendici di Cozzo Matrice, in c/da Jacopo, dove trascorrevo il mio tempo a “fantasiare” tra queste verdi colline. Qui, i miei adorati nonni che possedevano un rigoglioso vigneto (foto 18) con palmento in muratura, mi raccontavano la storia di un’antica città popolata da uomini la cui esistenza, oggi, possiamo solo immaginare attraverso i labili segni rimasti incisi nella pietra e sussurrati dal vento.

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