Archeologia funeraria e sacralizzazione della morte nelle necropoli dell’ennese

Il ciclo perenne della vita e della morte raccontato a partire dalla notte dei tempi

Fra tutti gli esseri viventi l’uomo è l’unico che percepisce la morte non solo come evento naturale ed inevitabile, ma anche come evento culturale inteso a dare un senso alla vita stessa. I riti funerari hanno così tanto contraddistinto le diverse civiltà che, in base al tipo di sepoltura, gli archeologi sono oggi in grado di individuare l’epoca e l’etnia di appartenenza; ciò in quanto i sepolcri, sebbene destinati ad accogliere le spoglie mortali, costituiscono la testimonianza più profonda e reale della vita.

Nei tempi più remoti non v’erano particolari attenzioni verso le spoglie dei defunti che, dopo breve commiato ed essendo la morte un evento “a sorpresa” ancora privo del connotato della ritualità, venivano abbandonati alla naturale decomposizione, divenendo pasto per gli animali selvatici (pratica ancora in uso in alcune parti del mondo).

Quando l’uomo si organizzò in gruppo, prendendo coscienza dell’importanza del trapasso, lo mise in relazione con il soprannaturale adottando progressivamente pratiche rituali che evidenziavano la valenza sociale e collettiva della dipartenza del singolo, non più sentita come fatto individuale ma come evento di rilievo sociale capace di mettere in crisi oltre che la famiglia di appartenenza anche la stirpe, la discendenza, il clan, la tribù, la società locale.

Tra le deposizioni più antiche di Sicilia si attestano quelle rinvenute all’interno della grotta di San Teodoro (Acquedolci - ME), che hanno restituito informazioni preziose sul rituale funerario in uso nel Paleolitico superiore da parte dei primissimi abitanti della nostra Isola. Nell’agosto del 1937, all’interno della caverna venne scoperto uno scheletro quasi completo di una donna di circa 30 anni, alta 164 cm, che “riposava coricato sul fianco sinistro, disteso parallelamente all’asse della caverna, con la faccia rivolta verso la parete opposta ed i piedi tesi verso l’apertura. Lo strato d’ocra correva sopra lo scheletro, e subito sopra l’ocra vi era prima uno straterello con rari carboni e selci, quindi cm. 80 di deposito costituito da ossa spaccate, selci quarziti e carboni…” (C. Maviglia, 1941) “…dodici elementi di collana costituiti da dodici canini di cervo elafo perforati, trovati insieme ai resti dell’inumato e probabilmente facenti parte del suo corredo funebre” (Graziosi, 1947). Si desume, pertanto, che la cerimonia funebre prevedesse la purificazione del cadavere con ocra rossa, pigmento di alto valore simbolico legato alla rigenerazione del defunto e al colore del sangue. Seguiva il pasto rituale di animali appositamente sacrificati nonché la predisposizione del corredo del defunto, costituito da ornamenti e oggetti di uso quotidiano che potessero essere di conforto nella vita ultraterrena. Questi ultimi rituali furono una costante per i millenni a venire, nella prospettiva e nell’aspettativa dell’immortalità dell’anima.

Allo scheletro della donna più antica di Sicilia, databile intorno a 14.000 anni fa, venne attribuito il nome di Thea (dal latino Theodora) per ricollegarlo al nome della grotta in cui avvenne la scoperta. Il prezioso reperto (fig. n.1) è oggi custodito nel Museo Geologico G.G. Gemmellaro di Palermo.

Durante il Neolitico trovò ampia diffusione in tutto il Mediterraneo l’inumazione individuale rannicchiata, spesso entro fossa ovale o entro cista litica.

A partire dall’Età del Rame (3.500 a.C., circa), comincia, invece, a diffondersi la sepoltura a “grotticella artificiale” o a “forno”, di tradizione orientale egeo - anatolica: veniva scavata una piccola grotta nella roccia tufacea ed il defunto era deposto all’interno in posizione fetale, rannicchiato su se stesso, come a volerlo ricollocare nel grembo della madre terra per assicurargli la rinascita. Questo tipo di deposizione rupestre, sigillata con un portello di pietra, si trova sparso in tutto il territorio ennese, tra cui le alture circostanti il Lago Pergusa, tuttavia, l’esempio più efficace è quello della necropoli di Realmese (IX - VII sec. a.C.), a Calascibetta, ove è possibile ammirare centinaia di piccole tombe scavate sulle pareti rocciose di una collina quasi con l’intento di “monumentalizzare” la morte ed i riti collegati (fig. n.2 e n.3). Tipica era anche la variante di tomba a pozzetto, uni o pluricellulare per più deposizioni (es. necropoli di Malpasso presso Calascibetta). Numerose tombe a “grotticella” e a “forno” (fig. n.4 e n.5) si trovano sparse anche nei fianchi del Monte Altesina (EN).

I resti di una interessante tomba a “grotticella” si intravedono, in alto, a destra dell’antico ingresso ipogeico del castello di Lombardia di Enna (fig. n.6). Tale manufatto è coerente con i resti di una capanna dell’Età del Rame, scoperta nel 1931 da Paolo Orsi nei pressi della Rocca di Cerere, al di sotto di un sepolcro ellenistico.

L’architettura rupestre a “grotticella” cadde in disuso nell’Età del ferro. Infatti, con l’avvento della colonizzazione greca e non prima della metà del VI secolo a.C.,  venne introdotto il rito dell’incinerazione nonchè l’uso delle tombe a camera con banchine interne, soffitto a doppio spiovente e prospetto sagomato a timpano, collegato al rito del banchetto funebre greco (fig. n.7 e n.8, necropoli di Cozzo Matrice).

Pertinenti al rito della incinerazione sono le preziose urne cinerarie in marmo (fig. n.9 e n.10) custodite nel museo archeologico di Centuripe.

L’utilizzo delle tombe a camera era spesso familiare, tanto che esse venivano chiuse e riaperte in occasione della tumulazione dei componenti della famiglia.

Nel periodo ellenistico si diffusero anche le sepolture a cassa e copertura “a cappuccina” (fig. n.11), di cui qualche esempio è riscontrato nella necropoli della valle del Pisciotto, a Enna.

Alcune rare tombe “a circolo di pietre” (fig. n.12), sono state rinvenute a Rossomanno (EN) negli anni ’80, singolare è la loro somiglianza con le sepolture etrusche. Un “unicum” è, tuttavia, rappresentato dal “campo di crani” (fig. n.13) di Monte Rossomanno, che costituisce impressionante testimonianza di un singolare rito funerario destinato forse ad onorare le vittime della “battaglia del Crisa” (l’attuale fiume Dittaino) tra i cartaginesi e le armate siracusane di Dionisio I (392 a.c.). Circa un centinaio di teschi furono trovati all’interno di una fossa rettangolare, piantati a terra come se fossero stati schierati in un campo di battaglia, essi costituiscono un rarissimo caso (forse unico) di Akephalia o decapitazione rituale di gruppo. Questi teschi, rinvenuti durante le ricerche archeologiche del 1978, vennero inviati per "ulteriori indagini" all'Università di Pisa, nei cui magazzini pare siano tuttora conservati in attesa di essere sottoposti a specifici esami che possano dare risposte certe alle tante domande ipotizzabili.

Due analoghe sepolture “acefale” (fig. n.14 e n.15) ho avuto occasione di osservare e fotografare negli anni ‘80 durante la campagna di scavi intrapresa dalla Soprintendenza ai BB CC di Enna presso il villaggio indigeno ellenizzato di Cozzo Matrice (EN). Si trattava di due piccole tombe a camera ovale, di epoca arcaica, nelle cui pareti erano collocate due o tre file di crani sovrapposte; la mia documentazione fotografica è l’unica testimonianza visiva di tale rinvenimento. Nel corso della medesima campagna di scavi è stata rinvenuta anche una rara sepoltura in vaso, detta ad “enchytrismos”, all’interno di un grande cratere laconico (spartano) a vernice nera del VI sec. a.C., oggi conservato nel Museo Archeologico Varisano di Enna (fig. n.16). All’interno del cratere è ancora conservato un teschio sovrapposto ai resti inceneriti del corpo del defunto. Secondo gli studiosi, questo tipo di sepoltura sarebbe nata dalla fusione tra la cultura indigena e quella ellenica che prevedeva l’uso alternativo della cremazione dei defunti. Più realisticamente si parla anche di “rituale funerario collettivo” che prevedeva, in caso di nuovi seppellimenti, pratiche di esumazione, manipolazione, selezione e riposizionamento delle ossa in “sepoltura secondaria” al fine di far posto ad un nuovo defunto che andava ad occupare il centro della camera. Così le ossa lunghe venivano disposte verticalmente lungo la parete e quelle corte erano sistemate a mucchio accanto al cranio. Nel caso di Cozzo Matrice i crani, addossati alla parete, “osservavano” l’ingresso della camera funeraria, chiuso da un portello di pietra. 

In epoca romana, si diffuse il “columbarium” il cui corrispondente ennese trova riscontro nella famosa “grotta della spezieria”, ubicata nell’alto dello sperone roccioso della Via Pergusa (fig. n.17). Trattasi di un monumento funebre rupestre caratterizzato da 65 piccole nicchie intagliate nelle pareti  della roccia, destinate a contenere le urne cinerarie dei defunti. Tale tumulazione risultava molto funzionale per le città in cui v’era una elevata concentrazione di abitanti in quanto i colombari potevano contenere, in spazi limitati, le ceneri di molte persone. Purtroppo, la “grotta della spezieria”, erroneamente ritenuta una sorta di antica farmacia o rivendita di spezie, da cui  prese il nome, non è più raggiungibile a causa del crollo del sentiero di accesso, in compenso, è visitabile un analogo “colombarium” nel Villaggio bizantino di Calascibetta, in contrada Canalotto (fig. n.18).

In epoca tardo imperiale e bizantina l’architettura funebre sviluppò le tombe ad “arcosolio”, costituite da un sarcofago scavato nella roccia sormontato da un arco, forse simboleggiante il sole nascente e quindi la rinascita del defunto (fig. n.19). Alcuni di tali sepolcri sono ubicati nei pressi della Rocca di Cerere, sotto l’attuale cimitero di Enna, in contrada Ve’ Nova (fig. n.20), nonché nel Villaggio bizantino di Calascibetta.

All’epoca bizantina o paleocristiana dovrebbero risalire molti dei sepolcri rivenuti all’interno del Castello di Lombardia (che, all’epoca, non esisteva ancora), alcuni dei quali racchiusi nell’ipogeo rinvenuto nel cosiddetto Cortile di San Nicolò (fig. n.21 e n.22). In quest’epoca cessa l’uso millenario del corredo funebre, elemento utile agli archeologi per caratterizzare la funzione sociale del defunto.

Come detto, una particolare usanza molto diffusa, quasi un comune denominatore dei rituali delle varie civiltà, era quella del banchetto funebre che prevedeva il consumo di cibi e bevande alcoliche, i cui resti venivano abbandonati all’interno del sepolcro o nelle vicinanze. Dopo la libagione, i vasi da mensa venivano deliberatamente fatti a pezzi ed infilati in una fossetta terragna realizzata a tale scopo. Questo rito era associato al Mundus Cereris cioè la fossa circolare ubicata all’ingresso del santuario di Cerere, dea del frumento e della fecondità, correlata anche al mondo degli inferi, custode dei fenomeni tellurici e sotterranei. Tre giorni l’anno (24 agosto, 5 ottobre e 8 novembre), la fossa veniva aperta per mettere in comunicazione il mondo dei morti con quello dei vivi. Erano questi i giorni del “Mundus Patet” (il Mondo Aperto), durante i quali i defunti ritornavano dal mondo dei morti ma il Mundus poteva attrarre anche le anime dei vivi. Per tale motivo era proibito dare battaglia, prendere moglie, svolgere funzioni pubbliche e le porte dei templi erano chiuse.

Non è un caso che simili rituali siano confluiti nelle attuali tradizioni, sebbene, nella moderna era del consumismo, si assista ad un fenomeno inverso a quello sopra delineato in quanto l’idea della morte, ineluttabile limite all’agire umano nonché argomento che per millenni ha alimentato lo sviluppo della civiltà umana, è stata gradualmente rimossa e sostituita da una impietosa quotidianità che, nascondendo e banalizzando il pensiero del trapasso (vedasi il carnascialesco Hallowen), finisce anche per svalutare il vero dono che è la vita.

 

 

 

Print
Commenti

Theme picker


Ultime notizie

«aprile 2024»
lunmarmergiovensabdom
25262728293031
1234567
891011121314
15161718192021
22232425262728
293012345

Archivio

Seguici su YouTube

Seguici su Facebook